25 APRILE 2012
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA DI ROMA
SALA SINOPOLI
COSIMO CINIERI
PIER PAOLO POETA DELLE CENERI
regia
IRMA IMMACOLATA PALAZZO
da un'idea di
GIANNI BORGNA
drammaturgia
IRMAIMMACOLATA PALAZZO
e
GIANNI BORGNA
La voce poetica di Pier Paolo
Pasolini è stata una delle più forti e più lucide nel denunciare i mali del
mondo moderno e la violenza del potere, di ogni potere. Per questo è stata
anche una delle voci meno assimilabili e accettabili. Tutta la sua opera e la
sua vita sono state un corpo a corpo con la realtà e un duro atto d’accusa
contro la società dei consumi e la borghesia, da lui considerata una
“malattia”. Pasolini, però, non era in senso stretto un filosofo o un ideologo;
era un artista particolarmente poliedrico (poeta, scrittore, critico, regista,
drammaturgo, pittore) e di straordinaria sensibilità. Le sue analisi – anche le
più oggettive e “corsare” – erano sempre frutto di questa sua capacità
visionaria, che trascendeva e sublimava tutto quello che egli sperimentava
vivendo. Noi vogliamo proporre proprio questo
Pasolini. Il Pasolini che in versi a volte purissimi, a volte accesamente
sperimentali, cerca di trarre in prima persona un bilancio della sua vita e di
comporre un ritratto di sé di una sincerità sconvolgente. Sono tra l’altro i
versi di Una disperata vitalità, il
poemetto compreso nella raccolta Poesia
in forma di rosa del 1964, di Who is
me?, noto in Italia come Poeta delle
ceneri, composto nell’estate del 1966 dopo un viaggio a New York come
risposta alle domande postegli da una giornalista americana, in realtà un
autoritratto dei più profondi e dei più crudeli, e di Coccodrillo (nel gergo giornalistico un necrologio scritto in
anticipo per averlo pronto al momento del bisogno), che Pasolini scrive nel
1968 su sé stesso, senza riuscire mai a concluderlo, data la complessità e
l’imprevedibilità della vita.
Gianni Borgna
IL CONCERTO-SPETTACOLO
“Non bisogna aver paura di avere un cuore”. PPP
E’ con molto amore che ho
affrontato questo spettacolo. Madre profuga friulana, o meglio, slovena, [nata,
cmq, a 50 km da Casarsa: mia rimozione totale (!) fino a ieri, prima di
dedicarmi allo spettacolo], nonni austroungarici, famiglia massacrata equamente
da nazisti e partigiani, padre meridionale da infinite generazioni, nata in
Francia durante l’emigrazione dei miei, e poi sbattuta negli anni ’60 al Cep di
Bari che, al confronto, le borgate pasoliniane mi sembrarono, una volta a Roma,
dei villaggivaltur. Posso considerarmi, insomma, un prodotto tipico del
sottoproleriato acculturato che PPP non amava, un pastiche antropologico.
Nichi Vendola, a ragione,
sostiene che PPP è il poeta di una transizione, di un trauma. Ecco, io sono
figlia di quella transizione, di quel trauma. Va da sé che lo spettacolo
urgeva.
Sono a Roma dal ’75 e ho fatto in
tempo a vedere Pasolini alla manifestazione per la Spagna libera in piazza di
Spagna. Quella famosa con tutta la FGCI schierata in veste d’alfieri e pronti a
prenderne il testimone. E si sa che il poeta molto si aspettava dai giovani
Borgna, Veltroni, Adornato, ecc.
Me lo ricordo PPP, urlare e
sbraitare come un pazzo profeta biblico, affinché ‘prendessimo coscienza’ e ci
fermassimo. E, rileggendolo, ancora oggi, un senso di colpa: sono abbastanza in
trincea? Siamo, chi più chi meno. Nella pseudoatarassia dilagante, in questo
vuoto barocco –mi si perdoni l’ossimoro- lo scandalo terribile è che non ci
scandalizza più nulla. A PALAZZO qualcuno scappa con la cassa, arrogandosi poi
il diritto di tenersi la poltrona. E allora? Depredati ci chiediamo: ma la
Chiesa l’ICI la paga o non la paga? Ni. E allora? Ma ‘sta montagna in Val di
Susa è davvero piena d’amianto? Sondaggi TV proposti al pubblico: digitare sì o
no. E allora? Immigrate dalla Cina 900 scimmie per la vivisezione. E allora? Le
rosse bandiere nella grande, nobile,
santa madre Russia si sono dissanguate per tentare l’ultimo assalto per la
libertà, ma porcaloca ancora quanto poco sventolate, visto che dopo i brogli
son buone per farne migliaia di mouchoires.
E allora?
Ci sono morti che ci appartengono
più delle altre, perché ci lasciano rabbiosamente orfani. E’ il caso di PPP. La
sua voce ci manca, il suo coraggio, la sua rabbia, ci mancano le sue
appassionate e profetiche analisi sociologiche, le sue violente polemiche che
nessuno risparmiavano, neanche gli amici più cari, gli intellettuali in auge. Ci
mancano i suoi ammonimenti. E il suo onnivoro e vitale ‘sperimentare’.
Furente Cristo, per spaventarci
ben bene all’ultimo atto del martirio, PPP dà in pasto il proprio corpo. Ecce homo. E difatti ancora ci esorta -a
chi vuol sentire- alla rabbia, non quella che sfila soltanto un giorno, no,
quella che invece ogni giorno mette in gioco realmente la vita e agisce per
sacrosanto pane certo oggi e per il desco di tutti i figli di domani. In India
vige il monito che alla vita abbisogni un soldo per il pane e un soldo per la
rosa, alias poesia. PPP, poeta, incita alla rivolta permanente (Camus docet) e invoglia alla pietas delle proprie insanabili
contraddizioni. Per tutto questo e altro ancora, a tanti anni di distanza, ci è
dato di ritrovarcelo accanto, vivo compagno di viaggio.
Quel VUOTO in cui ci lasciò è
ancora intatto. Ebbene, questo Concerto-spettacolo parte da quel Vuoto.
Rigurgito magmatico e sfilacciato, suddiviso in 10 capitoli che, dalla morte di
PPP vanno à rebours, palesando alcuni
dei suoi temi più emblematici, con un prologo profetico e un epilogo friulano
in un campo di lucciole. Il testo è innestato su Pier Paolo, poeta delle
ceneri e Coccodrillo, usati come
griglia autobiografica. Del corpus pasoliniano, della sua imponente e
torrenziale logorrea poetica, vitale piano-sequenza interrotto dalla morte
violenta, sopravvivono in collage resti, brandelli d’un furente e amorevole
pasto dionisiaco, frammenti ridotti a volte a capitoletti buoni per FB (su cui
è molto citato) o a slogan per Twitter, veicoli dell’immaginario collettivo di
oggi. Uno spettacolo aperto, tanto abile da ‘fingere’ una sorta di mood tra happening e performance
(per PPP, la vita come espressione di sé), e che abbia l’aria del non finito,
di una cosa in fieri, in divenire, così come lui avrebbe voluto che fosse letta
la sua opera. Un affresco.
Cosimo Cinieri rivive con struggente e rabbiosa verità i versi pasoliniani,
alla stregua di un antico-modernissimo rapsodo. Lo accompagna una band di virtuosi solisti, contagiati da
sonate bachiane, ritmi di balera e canzonette da jukebox di periferia, che richiamano atmosfere di quel mondo
contadino o emarginato tanto amato dal poeta: le musiche sono citazioni dei
suoi film, orchestrate da Domenico
Virgili (Violino tzigano, Fenesta ‘ca lucive, Il mio canto libero,
l’Adagio di Albinoni, Chopin: il Valzer op.34N°2, il Blue distorto Dark was the night di Blind Willie Johnson,
Sempre libera degg’io della Traviata, Amado mio, di Bach il Siciliano, il
valzer di Salò: Danzi: Son tanto triste, ecc.).
Nelle maglie della narrazione si
intrecciano alcune delle sue canzoni più belle (Che cosa sono le nuvole? I ragazzi giù nel campo, Chi è un Teddy Boy?
Danza de li sette veli, Il valzer della toppa, Cristo al Mandrione),
interpretate da Gianni De Feo con
lirismo appassionato e scopertamente ambiguo, testimonianza di una “diversità” da Pasolini stesso
dichiarata, a volte vissuta come ferita esistenziale e che pagò con la propria
vita.
Lavorando sulle frequenze
musicali e vocali, verrà visualizzato sullo schermo il calendario di PPP. Una
foto per ogni mese, giusto giusto per ogni capitolo del nostro testo. Ridotto a
icona di massa, come una qualsiasi velina, come Che Guevara, stampato sulle
t-shirt che i ragazzi di oggi portano allegramente senza sapere neanche chi
sia. L’installazione è di Max Ciogli.
Giancarlino Benedetti Corcos è autore degli elementi
scenografici: l’altare/teatrino delle belle bandiere (stracci ridisegnati e
reinterpretati da lui), compresa la bandiera bianca contro Putin con la quale
Cosimo si soffierà il naso e l’altare/teatrino delle rose, sorta di
casotto-camerino d’attore con specchio e servomuto portante gli abiti di scena
del cantante. Fabiana Di Marco, impianto
scenico; Gian Maria Sposito, costumi;
Giannantonio Marcon, video; Daniele Lanci, foto di scena.
a mia madre, quella parte di
Friuli che è in me
Irma Immacolata Palazzo