domenica 20 settembre 2015


TEATRO PALLADIUM
27 ottobre 2015 ore 20,30

COSIMO CINIERI

LE ROSE DEL PARNASO 2 edizione – Festival itinerante
NIETZSCHE, TRA DIONISO E APOLLO
Ditirambi di Dioniso e altre poesie


LUCIO SAVIANI filosofo-performer


DOMENICO VIRGILI orchestrazione e pianoforte

GIUSEPPE FRANA strumenti a plettro orientali

SALUA danza


drammaturgia e regia
IRMA IMMACOLATA PALAZZO

Nietzsche poeta e non filosofo.
 “Un pretendente della verità – tu? Così schernivano./ No, soltanto un poeta!/ Un animale astuto, rapace, strisciante,/ che deve mentire,/ che sapendo, volendo, deve mentire,/ avido di preda,/ variamente mascherato,/ maschera egli stesso,/ egli stesso preda/ Questo - un pretendente della verità?... –/ No, soltanto giullare! Soltanto poeta!”, dove narr ha parecchi significati oltre che giullare: matto, stolto, stupido, buffone. Già, istrione, attore – colui che indossa la variopinta maschera, che simula, e che, in virtù della spersonalizzazione, sa operare una distruzione attiva del soggetto. Da sempre, come rileva Klossowski, citando La Gaia scienza, N. è affascinato dal problema: ‘calarsi in una parte’, in una ‘parvenza’. Il piacere della simulazione nel suo prorompere come potenza che spinge da parte il cosiddetto “carattere”, inondandolo, soffocandolo. (…) L’esistenza cerca una fisionomia per rivelarsi; l’attore è il suo interprete. La scena, il mondo. K. chiosa: si crede di poter scegliere liberamente di essere quel che si è, ma, in realtà, si è costretti a recitare una parte, non essendo quello che si è.  Pur non potendo non volersi, non si può volere che un ruolo. Per tutta la vita, N. pensò attorno al teatro, e con Ecce Homo e l’irrompere di una selvaggia teatralità, si trovò di fronte all’imperativo di praticarlo (Calasso).
Quindi, commediante. O matto. Un presagio? I Ditirambi è l’ultimo testo che Nietzsche diede alle stampe prima di consegnarsi pazzo all’eternità. Prima di varcare l’ultimo confine sceglie il canto (caro ad Apollo, dio della divinazione che discende dalla follia); poesia in forma di ditirambo. Il ditirambo è la forma corale che prelude alla tragedia. Là c’è Dioniso. Il dio dell’ebbrezza, con cui si condivide l’eterno dir di sì al nonsenso della vita. Giorgio Colli ci rammenta che un geroglifico arcaico raffigura Apollo con l’arco e la lira, suoi attributi che ricordano le corna di un capro, animale sacro a Dioniso.
Poesia e follia appartengono ad Apollo. Noi, autoinvitati al banchetto celeste, dobbiamo, però, farci trovar pronti come iniziati, visto che alla sua tavola si mangia Zagreus-Dioniso smembrato. Nella tragedia, infatti, DIONISO PARLA PER BOCCA DI APOLLO. Il cerchio si chiude. Non è poco per chi sempre è stato s-centrato come Nietzsche. Inattuale, come più volte ha rimarcato lui stesso. Fuori del suo tempo.
Forse meraviglia che lui, nei versi succitati, con raffinata ironia, ci tenga a precisare di non essere un filosofo, bensì un poeta. Infatti, come dice nella Gaia scienza, i filosofi dovranno parlare in modo nuovo, strappando gli strumenti di comunicazione alla scienza e all’arte.
N. non seguì studi accademici di filosofia; studiò per diventare teologo e insegnerà filologia classica fino ai 35 anni quando deciderà di dedicarsi alla filosofia a tempo pieno. Gli studiosi francesi lo incasellano come pensatore moralista. Ci sono i filosofi: Descartes, Bergson, Malebranche e ci sono i moralisti: Montaigne, Pascal, Diderot. E anche in Germania, Goethe è sistemato tra i moralisti. Ma N., a dispetto di qualsiasi catalogazione, specifica di essere soltanto un poeta, sebbene Giorgio Colli affermi che “Nietzsche poeta non è altra cosa da Nietzsche filosofo”. E anche Klossowski parla di una coesistenza in N. del sapiente e del moralista, dello psicologo e del visionario.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta? N. sceglie dunque la poesia che non dice né nasconde, ma accenna, che balbetta l’indicibile. Ma, alla fine della fiera, la poesia serve o no alla vita? E’ necessaria, egli ci dice da qualche parte.

Nietzsche, Il grande distruttore, come lo chiamò D’Annunzio, che gli dedicò per la sua morte un’ode (per la verità neanche tanto straordinaria): oltre il bene, oltre il male,/egli andava ebro della sua guerra,/splendido della sua virtù,/irto de’ suoi pensieri/. Ma, più che distruttore, potremmo definirlo smontatore, un decostruttore, così come acutamente ha messo in evidenza Vattimo. Più che venire rifiutati, i valori vengono smontati, quasi denudati, messi in luce nella loro vera natura. N. è colui che ha liquidato una volta per tutte l’essere e la sua coscienza, la morale, la verità, la dialettica, la storia, la libertà, Dio e ogni sostegno metafisico. Ma, considerato padre del nichilismo ermeneutico, la sua è in realtà una filosofia dell’affermazione. Deleuze sottolinea che se Marx e Freud sono l’”alba” della cultura contemporanea in quanto pensatori dello smascheramento, N. è un’altra cosa, è l’alba di una contro-cultura, perché a differenza dei primi due, che hanno ristabilito i codici (lo stato, l’economia, la famiglia), egli resta un eversivo, un nomade del pensiero e della vita.
Filologo, pensatore, compositore, psicologo, moralista, poeta e scienziato. Gaio.

I DITIRAMBI E LE ALTRE POESIE
Nella sterminata bibliografia nitzscheana, la poesia è stata abbastanza trascurata. Eppure la sua vocazione la si ritrova nelle composizioni poetiche della Gaia scienza, in Umano troppo umano e soprattutto in Così parlò Zarathustra, dove il linguaggio immaginifico rende impossibile distinguere le giunture tra prosa e verso (A.M.Carpi).
Per N. stesso, i Ditirambi di Dioniso è il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori. Egli si dice l’inventore del ditirambo, il nuovo linguaggio dello spirito quando parla da solo con se stesso. Vi emergono i grandi temi della sua meditazione ultima, carichi di una sorta di ‘vena agostiniana’. Secondo Giametta, i Ditirambi sono una delle tante manifestazioni della personalità poliedrica di Nietzsche.
Versi singolari per l’arditezza linguistica, è sempre la Carpi a sottolinearlo, graficamente visualizzata, per esempio dalle lineette che scardinano il contesto sintattico, come se in questa volontà di dare ogni cosa per possibile, ci sia un bisogno tutto moderno di superare ogni limite e di trovare un modo nuovo per dirle. E allora il gioco delle allitterazioni, uno dei mezzi retorici da lui prediletti, che concepisce e suggerisce sensi diversi. Certo è che N. si gioca anche nella versificazione una variegata tavolozza umorale: dal meschino Principe Ucceldibosco, tremante di febbre nel suo lettuccio durante la nera notte di pioggia, al beffardo Uccello picchio col suo meccanico tictac, la cui imitazione è il rimare dei versi.  Lapalissiana in queste figure l’aspirazione comunque a librarsi, all’andar leggeri.
Paesaggi e tempo cronologico appartengono all’ordine del simbolico: tramonti, sole allo zenit, nottate: opportuni all’intuizione, suggestioni, dove, però, non aleggia alcun mistero se non in forma di enigma e solo si pretende la parità col dio.
Nel penultimo ditirambo, Gloria ed eternità, N. ci propina una sfida spaventosa: “Chi lo legga senza esserci preparato, muore”. Continuamente egli tenta di innalzarci alle sue vette, là dove dimora l‘aquila dallo sguardo acuto e dal rostro tagliente. Fino alle stelle, là dove si vedono ruotare ‘mari di luce’.

LO SPETTACOLO
Cosimo Cinieri in NIETZSCHE, TRA DIONISO E APOLLO, con Lucio Saviani, filosofo-performer, Domenico Virgili, orchestrazione e pianoforte, Giuseppe Frana, strumenti a plettro orientali, Salua, danza. Drammaturgia e regia di Irma Immacolata Palazzo.
La performance tra poesia-filosofia e teatro inizia e finisce con una risata.
“E perduto sia per noi il giorno in cui non si sia danzato neanche una volta! E si dica falsa ogni verità per la quale non ci sia stata una risata!” Il saggio ride. “Non è con l’ira ma è con il riso che si uccide. Uccidiamo dunque lo spirito della gravità”.
Risata e danza, strumenti d’elevazione, quasi un distico sacro per N., figure della leggerezza e insegnamento capitale nello Zarathustra. Solo il saggio, l’uomo leggero, l’oltreuomo sa ridere della tragicità dell’esistenza, pur vivendola fino in fondo, l’unico che sa accettare l’estrema visione dell’eterno ritorno e che danza al tramonto tra il cielo e l’abisso. Altero e mai mendicante audience. Profeta della solitudine. Principe ucceldibosco. Siamo nella sfera dell’Artistik, come lui la chiamava, più vicina alla vita dell’acrobata, del funambolo, il primo doppio di Zarathustra che a sua volta era doppio di Nietzsche. Una vertigine. Noi artisti siamo incorreggibili.
Ci sono pagine di N. che sono pura energia, che invitano al ballo frenetico di una pizzica (danza dionisiaca per eccellenza, comune a tutte le culture del Mediterraneo nelle sue innumerevoli varianti). Pagine febbricitanti. Visionarie. Una scrittura contagiosa, perché chi parla è posseduto e ti possiede.
Il palcoscenico è una scacchiera in cui gli elementi sono proiezioni l’uno dell’altro (specchi); ensemble che obbedisce comunque alla legge dell’”arte monologica”. Ogni entità è un commediante che gioca da solo: il giullare-voce recitante i Ditirambi, il filosofo, sulla cui scrivania s’intravedono i tre fatidici dadi, che racconta di labirinti e naufragi,il pianoforte per creare atmosfere apollinee, il musicista con strumenti a plettro (cuore appassionato), la danzatrice-Arianna, padrona eppur perduta (come N. la immagina) nel proprio labirinto. Insondabile femminilità, ‘squassata da febbri ignote’ per il suo ‘Dio carnefice’, Dioniso, dalle piccole orecchie che sa odiare e amare a un tempo. Il cerchio è chiuso.
Nietzsche, tra Dioniso e Apollo, inserito nel Festival itinerante LE ROSE DEL PARNASO 2 ed., è prodotto dall’Associazione Culturale VAGABONDA BLU e sostenuto dalla Regione Lazio e Fondazione Roma Arte-Musei.
Foto di scena: Daniele Lanci; Uff.Stampa: Elisabetta Castiglioni Cell: 328.4112014 elisabetta@elisabettacastiglioni.com , Promozione e segreteria organizzativa: InventaEventi Tel: 06.98188901 progetti@inventaeventi.com , Promozione Scuole: Alt Academy Tel: 339.5932844 altacademy@libero.it

Biglietti: 15 euro Riduzioni: 10 euro Studenti: 5 euro.



Lucio Saviani
LABIRINTI E NAUFRAGI. LO STILE IN NIETZSCHE
Su Nietzsche e i Ditirambi di Dioniso

Per Irma e Cosimo

“La parola ‘smarrirsi troppo in alto’ deriva dal linguaggio degli alpinisti e designa la situazione in cui scalando le alte rocce si arriva a un punto dove non si può andare avanti né indietro, e l’alpinista è perduto. Uso questa parola per l’uomo che non solo è il più grande filosofo della fine del secolo XIX ma anche uno dei più intrepidi eroi che siano mai apparsi nel regno dello spirito”. E’ una pagina di un saggio di Thomas Mann, pubblicato a Stoccolma nel 1948.
A Nietzsche è forse più cara l’immagine del naufragio. Nell’ultimo paragrafo de La gaia scienza Nietzsche scrive così: “E ora, dopo essere stati in cammino così a lungo, noi Argonauti dell’ideale, più coraggiosi, forse, di quanto non lo esigesse la prudenza, dopo che molto spesso incorremmo in naufragi e sciagure - ora è come se a ricompensa di tutto ciò ci apparisse dinanzi agli occhi una terra ancora ignota, di cui nessuno ancora ha misurato con lo sguardo i confini, un al di là di tutti i paesi e i cantucci dell’ideale esistenti fino a oggi, un mondo così sovranamente ricco di cose belle, ignote, problematiche, terribili e divine …”.
Nell’avventura della conoscenza, che negli appunti per Aurora Nietzsche accosta all’avventura della navigazione, più di ogni altra cosa è possibile il “naufragio nell’infinito”. La citazione leopardiana ritorna più esplicita in un frammento dell’autunno 1880: “Infinito! Bello è ‘naufragare in questo mare’”.
Scrittore asistematico e geniale poligrafo, nella complicata “stratificazione di superfici” e di trame del suo testo Nietzsche ordisce, taglia, incide e annoda insieme, in modo inestricabile, generi e stili diversi: i saggi e trattati degli scritti giovanili, l’aforisma, la poesia in prosa, l’annuncio profetico, l’autobiografia, l’invettiva e poi simboli, allegorie, parabole. Il kikeyon, la bevanda degli iniziati ai riti eleusini, “si disgrega, se non è agitato”, ammonisce Eraclito l’oscuro. Così va “agitato” il testo nietzscheano: il suo labirinto è, insieme, filo e vertigine, funambolo e abisso, aracne (Arianna) e tela, passo e danza, Apollo e Dioniso.
Il problema dello stile, come annota Derrida leggendo Nietzsche, è sempre la valutazione di un oggetto acuminato. Di una piuma, di una penna, ma anche di uno stiletto, o magari di un pugnale. Rostro, sprone, punta tagliente, graffiante: graphos, che segna, incide e mantiene aperto uno scarto.
Lo stile è il modo individuale in cui un autore esprime la propria visione del mondo, ciò che  esiste in modo assolutamente singolare, non riconducibile ad alcuna regola. Invece Il particolare, specificazione di un universale, si rapporta all’universale come un caso alla regola; un caso non può mai cambiare una regola, mentre fra universale e individuale si spalanca un abisso: lo scarto stilistico.
All’abisso che si spalanca sotto i piedi dello scalatore, o che si nasconde nelle acque agitate del naufragio appartiene la poesia di Nietzsche.
Come per il kikeyon di Eleusi, la poesia di Nietzsche va assunta in costante associazione al pensiero speculativo, e questo, a sua volta, assume grazie alla parola poetica il suo scarto: il senso e la causa, l’origine. E i suoi effetti. Dai primi grandi ditirambi dello Zarathustra, fino alle liriche che Nietzsche raccoglie sotto il titolo Ditirambi di Dioniso  ricopiandole con cura nei primi giorni del 1889: sulla soglia del lungo silenzio, che cala come un’ultima maschera sul volto. A proposito di Gloria ed eternità, che precede di poco la follia, Nietzsche scrive: «Chi lo legga senza esserci preparato, muore»; tremenda profezia, come in Tra figlie del deserto: «Il deserto cresce: guai a chi rinchiude deserti!»
I Ditirambi di Dioniso sono il naufragio finale, in cui l’ “argonauta dell’ ideale”, più wagneriano di sempre, dice addio alla ragione e, con essa, alla filosofia. Niente  di più lontano dall’armonia classica. Come nel kikeyon, maestosa bellezza della tempesta e, insieme, ultimi spaventosi spasmi del naufrago. Nel primo ditirambo, ogni strofa è chiusa da ‘‘nur Narr, nur Dichter’’, ‘‘soltanto pazzo, soltanto poeta’’.
Nietzsche ha chiamato la pratica filosofica a un’azione decisiva: non accettare più i concetti già dati, ma crearne di nuovi, “porli e poi convincere gli uomini della loro verità”. Del resto, secondo Nietzsche, “sono indicibilmente più importanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono (…) basta creare nuovi nomi e valutazioni e verosimiglianze per creare, col tempo, nuove cose”.
Ma tutto questo, per Nietzsche, è “quello di cui i filosofi si accorgono solo alla fine (…) Fare della propria vita stessa un esperimento - solo questa è libertà dello spirito, ciò mi divenne più tardi filosofia” (Frammenti postumi 1888-89). 



giovedì 10 settembre 2015

LA CARTELLA ROSSA

romanzo di
IRMA IMMACOLATA PALAZZO

Presentazione
Sala "Pietro da Cortona", Musei Capitolini
P,zza Campidoglio, Roma
martedì 6 ottobre 2015 ore 17

Relatori: ANTONIO MARTURANO
               Docente di Antropologia Filosofica (Università di Roma Tor Vergata)
               PLINIO PERILLI
               Poeta e critico letterario

Con la partecipazione di COSIMO CINIERI



PREFAZIONE
E luogo comune che in fondo allanima di un artista c’è un dolore. Se si legge lAutobiografia di Charlie Chaplin si arriva a capire quali profonde lacerazioni turbassero la mente di uno dei più grandi artisti di sempre, e, quindi, si scopre il lato oscuro di Charlot, la sua profonda melanconia e tristezza che fa da contrasto ai suoi cortometraggi comici. Non è da meno il bellissimo racconto di Irma Palazzo, che mi accingo a presentare, intitolato La cartella rossa, che ha come fil rouge il dolore profondo dell'incesto.
In tempi cinici di 50 sfumature di grigio o di 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, il racconto di Irma Palazzo, ci apre, in modo intelligente, spesso ironico, ma, in fin dei conti, amaro, la sua cartella rossa di memorie.  Una cartella che ci offre uno spaccato di una società particolare, che di questi tempi  - di racconti e film nei quali si esaltano le relazioni transazionali - è poco esplorato: quello del sottoproletariato del sud Italia, della Puglia. Un ambiente che nella sua rudezza ricorda molto le borgate romane analizzate da Pasolini, il quale, era affascinato dal vitalismo dei sottoproletari romani, dalla carica umana che, pur immersi nellabbrutimento, i suburbi conservavano. Pasolini, infatti, non mancò di denunciare lo squallore di quella Roma marginale che aveva scoperto nella lunga frequentazione del popolo di periferia,  lasciandoci così, in Ragazzi di vita, romanzo del 55, e in Una vita violenta, del 59, un fedele ritratto dellepoca. Analogamente, non ci sono, nel racconto di Irma Palazzo, patinate storie di sesso estremo tra manager e giovincelle rampanti pronte a cedere il proprio corpo per una vita facile; ma delle vite, come nei racconti Pasoliniani, semplici e sofferte, ma, contemporaneamente, dignitose nei sentimenti e, paradossalmente, nella propria integrità morale; vite, cioè se vogliamo usare il lessico filosofico di Heidegger genuine, il cui metro non è il successo sociale o il danaro. E, almeno in parte, un ritorno al racconto sociale, a quel racconto che si sviluppa in gran parte dellEuropa nella prima metà dell'Ottocento che tratteggia la vita dei ceti sociali economicamente svantaggiati e denuncia situazioni di sopruso e pregiudizio. E pure un racconto sentimentale alla Laurence Sterne, ove la commozione dellautore si atteggia subito a sorriso, di un ridere quasi disperato e, come abbiamo già detto, sovente malinconico che è spesso strappato al lettore mediante lo stratagemma della parlata dialettale, il giargianese[1] o giaggianese, la lingua degli stranieri dal linguaggio incomprensibile ovvero, nelle intenzioni dell'autrice, di tutti coloro i quali sono stati strappati dall'ambiente a loro familiare: Barivecchia, e quindi privi di radici.
Il racconto, che si svolge negli anni 60 a Bari, e in particolare tra il quartiere oggi chiamato San Paolo (u CEP)e un collegio di Bitonto. Il quartiere San Paolo è uno dei quartieri di più recente costruzione nella città di Bari. Esso, infatti costituisce una grande zona residenziale la cui espansione è da ricondurre all'edilizia popolare degli anni '50 - '70; non a caso il San Paolo è sovente menzionato con l'acronimo "CEP" che sta per "Centro Edilizia Popolare" (anche se alla fine del racconto Irma Palazzo lo ribattezza centroelementipericolosi). La fondazione del quartiere fu decisa il 14 febbraio 1956 a causa della mancanza d'alloggi che potessero far fronte all'elevata crescita demografica; questa esplosione della popolazione rese, quindi, necessaria l'edificazione d'una grossa area destinata all'espansione territoriale della città capoluogo, Bari, come per altre città italiane (come per esempio, più tardi, il quartiere Paolo VI della vicina Taranto). Il quartiere diviene quindi come testimoniato dal racconto - un crogiuolo di etnie, razze e popoli provenienti da gran parte del bacino del Mediterraneo, diventando così un esperimento non inteso, di quello che diventerà lItalia negli anni odierni. Un luogo non-luogo nel quale si è manifestata prima che in altri luoghi lesperienza della liquidità dei legami sociali per usare un termine in voga oggi e coniato da Zygmunt Bauman , ovvero, lesperienza delle relazioni sociali come segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile. Infatti, questa liquidità è ciò che la piccola Immacolata, voce narrante del racconto, subisce sulla propria pelle, come anche alcuni degli altri interpreti del racconto: un padre presente solo in modo sporadico in quanto emigrante, con il quale Immacolata è costretta, come abbiamo detto, all'incesto; i rapporti che la bambina intraprende con le sue amiche di collegio; i rapporti con e tra i grandi con la lacerazione della quale si è intrappolati tra la voglia o la necessità di trovare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico. In questo senso il racconto è una iniziazione alla educazione sessuale e sentimentale, che però non mette mai in gioco l'innocenza, o meglio, la integrità della protagonista, al contrario del cinismo e dell'arrivismo sociale che si può leggere in romanzi come 50 sfumature di grigio.
Lincesto è un tema ricorrente nella letteratura di tutti i tempi, basti ricordare nella mitologia lEdipo Re di Sofocle ed Elettra nellOrestea di Eschilo -; nella letteratura più recente il Diario di Anais Nin, Elias Portolu di Grazia Deledda, o Centanni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez, giusto per nominare alcuni tra gli esempi più famosi, e la pletora di analisi psicoanalitiche che hanno alimentato il fascino di questo tabù sin dai primi studi di Freud. Anche il tema dellincesto si inquadra, nel lavoro della Palazzo, in quella dinamica di liquidità sociale, in particolare della liquidità familiare, che fa da sfondo, per esempio, allAgostino di Moravia. Come nel romanzo di Moravia - anche esso storia di una dolorosa iniziazione al sesso da parte di un adolescente -, ciò che rende interessante lincesto ne La Cartella Rossa è il suo inserimento allinterno di un quadro sociale disagiato, quello del CEP: se l' amore proibito, infatti, fosse raccontato soltanto sulla base di un chiuso rapporto di coppia, l'incesto rimarrebbe una questione isolata dal quadro circostante, facendo prevalere magari i suoi connotati esclusivamente psicologici. Ma laddove nellAgostino moraviano, le regole che assicurano la durata dell'istituzione familiare, sia pure degradate, continuano a mantenere una loro funzionale solidità, nel racconto di Irma Palazzo la liquidità, come mi son permesso di suggerire, prende il sopravvento.   
E, quello della Palazzo, un racconto che si può leggere su diversi livelli; il racconto di un esperimento multietnico: Filomena, la bambina colpa della guerra, mulatta, Carolina, la zingara mussulmana, che al contrario di Immacolata (che infatti, afferma: siamo tipi liberi, noi esempio palpabile della liquidità e dello sradicamento sociale), vive in modo tradizionale (ribatte, infatti, Carolina a Immacolata: Mm. Beata. Noi siamo una tribù.). E in questo esempio che si può apprezzare quella cesura tra le culture del sud del Mediterraneo e le culture postindustriali europee, entrambe condannate ad una diversa prigione: una, invisibile, dominata dalla liquidità e da quella perdita tradizionale di senso che crea negli individui quel sentimento di estraneamento; laltra, caratterizzata ancora pesantemente da una figura di controllo dominante (il maschio più adulto Colino o Niksa) che ha il compito di provvedere sicurezza alla tribù”. Questo dualismo meglio rappresenta il dilemma epocale tra libertà e sicurezza. Dice Bauman: "Libertà e sicurezza sono valori entrambi necessari, ma sono in conflitto tra loro. Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza. La maggior parte delle persone cerca di trovare un equilibrio, quasi sempre invano". Il racconto della Palazzo è come se ci invitasse a riflettere su questo dualismo e questo conflitto tra due weltanschauung che si propone in modo pionieristico a u CEP negli anni 60 e che preconizza i grandi conflitti ideologici di oggi e i piccoli conflitti interculturali quotidiani che viviamo nelle nostre periferie.
Irma Palazzo, quindi, si muove magistralmente a cavallo di due filoni: quello del racconto sociale e quello della educazione sentimentale. Un racconto, però, la cui lettura non si deve limitare alle pruderie sessuali, o alle emozioni - tante e contrastanti che esso ci può dare; La cartella rossa, al contrario, come mi sono sforzato di mostrare, ci invita a riflettere sulle scelte politiche passate che hanno informato la società italiana così come è oggi. Un mondo, quello de u CEP nel quale i legami incominciano a sfilacciarsi anche se non sono ancora usa-e-getta come quelli delle connessioni online sfruttate dal capitalismo che ha capito le potenzialità di Internet come veicolo di socialità. Invero, i legami sociali richiedono impegno; afferma Bauman, "connettere" e "disconnettere" è un gioco da bambini. Farsi degli amici offline è più complicato: lamicizia, come anche lamore, richiede impegno e ascolto; è questa linterpretazione che io propongo della metafora finale della cartella rossa, scarabocchiata, rovinata e infine vuotata ma segnata da solchi profondi; ogni segno, infatti, parla non solo di una singola compagna di collegio: Eva, Assunta, Sabella, ma anche della ferità dellincesto con quel padre che, tradendo una promessa, non ritornerà più. Solchi dellanima e nellanima, quei dolori motori dellanimo dellartista ai quali abbiamo accennato allinizio; gli stessi che infine però fanno dire alla piccola Immacolata, Non fasce nudde. E' bella lo stesso. Proprio cornuta, con le sue cicatrici nere d'inchiostro, un Non fa niente, non importa pieno di ottimismo che riecheggia, e, contemporaneamente ribalta, il pessimismo dell'ormai maturo Eduardo De Filippo in Peppino Girella: Che vuoi fare: è cose nient, dice la moglie. E Peppino Girella risponde in modo amaro: Pure questa è cose nient. È sem­pre cose nient.

Antonio Marturano
Docente di Antropologia Filosofica
(Università di Roma Tor Vergata)


 


[1] Il termine nato sul finire del XIX secolo nel Sud Italia, andò a sparire nel corso del tempo, per poi ricomparire d’improvviso, in forma leggermente modificata, negli anni ’40 del 1900. L’originaria voce ggiaggianése, modellata per corruzione sul termine viggianese (Viggiano, piccolo paesino montano della Lucania in provincia di Potenza), fu usata per indicare variamente taluni caratteristici suonatori ambulanti, oppure dei piccoli commercianti lucani che arrivavano alle latitudini centro-meridionali per acquistare uve o mosto semilavorato; solo una piccola parte di questi piccoli commercianti o suonatori provenivano effettivamente da Viggiano; ma poiché tutti i commercianti che non fossero campani, e soprattutto quelli provenienti dal nord, parlavano un idioma non molto comprensibile (ovvero allo scopo di imbrogliare), si finí per considerarli tutti “viggianesi” e, dunque, giaggianise. La voce, come abbiamo accennato prima, riapparve nell’uso del parlato comune subito dopo la guerra, quando in Campania, Puglia, Abruzzo etc. arrivarono le truppe alleate che parlavano un linguaggio altrettanto incomprensibile di quello tipico dei ggiaggianesi; fu in questo periodo che la voce ggiaggianese subí una sorta di ammodernamento, allorché accostando a ggiaggianese il nome proprio George, comune tra gli alleati, si ottenne giargianese, nelle medesime accezioni della vecchia parola.