14 aprile 2012
Per Giancarlino
Suggestioni pasoliniane –
Sensibilità
che è INCARNAZIONE
Follia appassionata (Picasso, per esempio)
di Raoul Kirchmayr
Pasolini
afferma (dunque) una certa follia che è la condizione della chiarezza,
poiché è grazie alla follia che l’espressione guadagna il suo nitore. Nel
poemetto dedicato a Picasso, contenuto in Le
ceneri di Gramsci, l’affermazione di questa follia chiude il canto di
Pasolini, dopo una sequenza di immagini che è un vero e proprio montaggio
cinematografico. Infatti, il procedimento poetico scelto da Pasolini non ha
nulla ache vedere con un’ekphrasis, non c’è nessuna tela di
Picasso che viene descritta, ma è colto il SENSO
DEL GESTO ARTISTICO, restituito nel suo movimento manuale che diventa
macchia di colore e disarmonia compositiva: è l’espressione che irrompe
sulla tela, la disorganizza o, meglio, la organizza secondo linee di tensione:
squarci, graffi, cagli che emergono sulla tela come ‘intimità viscerali’. Agli occhi di Pasolini, questo è
un corpo a corpo con la materia, prima ancora che restituzione di luce e
colore. Infatti, troviamo un lessico della cecità che si accompagna a quello di
una sensibilità che è di per sé incarnazione. La
passione è “manualità” e “impudico gonfiore dei sensi”. La passione è della
carne, nella carne, ma porta con sé
un sapere che si fa gesto nell’espressione. Ammesso che quella di espressione sia la categoria centrale
del pensiero sull’arte di Pasolini e che egli in tutto il suo lavoro abbia
schizzato le linee di un’estetica dell’espressione, allora la SENSIBILITA’ non
deve essere vista come una gnoseologia
inferior, ma come il cuore pulsante di un sapere vivente, ch ebatte
ritmicamente e apre con violenza degli squarci nelle nostre rappresentazioni
della realtà. Ecco un paradosso che è tipicamente pasoliniano e che occorre
pensare di nuovo: benché abbia teorizzato una nuova mimesis della realtà, Pasolini ci dice contemporaneamente che di
questa realtà non può essere fatta alcuna mimesis,
essendo essa battito, ferita, lacerazione, passione.
Il paradosso investe lo stile,
pertanto, che fa di Pasolini uno dei grandi autori del XX secolo che non si
sono limitati a teorizzare un certo pensiero barocco, ma lo hanno praticato.
L’espressione nasce qui da una polarizzazione, da DUE TONALITA’ DELL’ESSERE NEL
MONDO che sono altrettante aperture al mondo che Pasolini ritrova in PICASSO e
che definisce come “pure”. Tuttavia, esse non si danno mai nella loro purezza,
ma solo nell’espressione e grazie a
essa: gioia da una parte, cioè l’eccesso
di vita, un surplus energetico e pulsionale, angoscia dall’altra, cioè l’esperienza più radicale della nostra
finitezza di fronte alla morte. Vita-e-morte assieme, tese come una corda
sospesa sull’abisso e sulla quale occorre danzare, così come la mano di Picasso
danza sulla tela.
L’espressione
che sul pelo affiora
del quadro,
come da intimità viscerali,
infetta di
bruciante disamore,
e ne squassa
la squama di tonali,
dolcezze,
che, se resiste, e anzi
irrigidisce,
è per materiali
inebbrianti
cagli. Ma tra i balzi
graffianti
del pennello, la zona
di quasi
prativa luce, gli sfarzi
dei
disaccordi, ecco l’Espressione:
che s’incolla
alla cornea e al cuore,
irrichiesta,
pura, cieca passione,
cieca
manualità, impudico gonfiore
dei sensi, e,
dei sensi, tersa noia.
A nient’altro
che a questo ateo furore
poteva, nella
cadente Francia, Goya
cedere la sua
violenza. Qui, a esprimersi,
sono pura
angoscia e pura gioia.
Pasolini,
Picasso, da Le ceneri di Gramsci
Senza passione non c’è comprensione né
intelligenza. L’ESPRESSIONE è la clavicola che permette il movimento tra la
chiara intelligenza e l’affetto offuscato. Il movimento stesso è gioia, come
Pasolini dice nella settima strofa:
Quanta
gioia in questa furia di capire!
In
questo esprimersi che rende
alla
luce, come materia empirea,
la
nostra confusione, che distende
in
caste superfici i nostri affetti
offuscati!
Se Picasso ha ben colto, dunque, quella
realtà ancora non imprigionata nei codici di un linguaggio che ne fanno cliché,
se ha squarciato il velo della rappresentazione dell’ideologia borghese,
tuttavia la sua pittura ha un limite che è anche –dice Pasolini- il suo
“errore”. Manca infatti ciò per cui c’è realtà caotica e poetica, manca cioè
quella figura che dà senso a tutte le altre figure, il popolo:
Assente
è da qui il
popolo,
Ed è,
l’errore , in questa assenza.
La nona e ultima strofa chiude il
poemetto con un montaggio cinematografico serrato, è una sequenza di immagini e
al tempo stesso la messa in figura di un anacronismo: sono immagini che
provengono dal passato e che, attraversando il presente di Pasolini, giungono
fino a noi. I versi di Pasolini restituiscono delle tele di Picasso quasi delle
immagini oniriche. Sono immagini livide, cariche di un inquietante pathos che ci richiama a ogni strofa il
paradosso della nostra condizione, il nostro tempo scandito da decenni “così
vivi da non poter essere vissuti” se non con ansia, dolore, perdita, i nostri
anni che sono “doloranti”. Silenzio, fiamme scure, tempesta, paura, sinonimi
della nostra modernità che vengono qui cuciti come altrettante cancellature
della passione. Così, la passione della chiarezza agli occhi del mondo non può
che essere FOLLIA.
Sfortunati
decenni… così vivi
da
non poter essere vissuti
se
non con un’ansia che li privi
di ogni
quieta conoscenza, con l’inutile
dolore di
assisterne la perdita
nella troppa
prossimità… Muti
decenni, di
un secolo ancor verde,
e bruciato
dalla rabbi adell’azione,
non
trascinante ad altro che a disperdere
nel suo fuoco
ogni luce di Passione.
Le ultime
stanze gremisce la pura
Paura
espressa in cristalline zone
d’infantile e
senile cinismo: scura
e abbagliata
l’Europa vi proietta
i suoi
interni paesaggi. E’ matura
qui, se più
trasparente vi si specchia,
la luce della
tempesta; i carnami
di Buchenwald,
la periferia infetta
delle città
incendiate, i cupi camions
delle caserme
dei fascismi, i bianchi
terrazzi
delle coste, nelle mani
di questo
zingaro, si fanno infamanti
feste,
angelici cori di carogne:
testimonianza
che dei doloranti
nostri anni
può la vergogna
esprimere il
pudore, tramandare
l’angoscia l’allegrezza:
che bisogna
essere FOLLI
per essere CHIARI.
Nell’eterna metamorfosi dei veggenti,
qui non è il clown, il buffone, l’arrabbiato o il funambolo che cammina su una
corda tesa a insegnarci il gesto, ma è uno ZINGARO. Uno ZINGARO FOLLE, per
giunta, che si colloca pericolosamente a cavalcioni del secolo e, dipingendone le
mostruosità, forse promette un altro avvenire.
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