venerdì 13 aprile 2012


14 aprile 2012
Per Giancarlino
Suggestioni pasoliniane – Sensibilità che è INCARNAZIONE

Follia appassionata (Picasso, per esempio)
di Raoul Kirchmayr

Pasolini afferma (dunque) una certa follia che è la condizione della chiarezza, poiché è grazie alla follia che l’espressione guadagna il suo nitore. Nel poemetto dedicato a Picasso, contenuto in Le ceneri di Gramsci, l’affermazione di questa follia chiude il canto di Pasolini, dopo una sequenza di immagini che è un vero e proprio montaggio cinematografico. Infatti, il procedimento poetico scelto da Pasolini non ha nulla  ache vedere con un’ekphrasis, non c’è nessuna tela di Picasso che viene descritta, ma è colto il SENSO DEL GESTO ARTISTICO, restituito nel suo movimento manuale che diventa macchia di colore e disarmonia compositiva: è l’espressione che irrompe sulla tela, la disorganizza o, meglio, la organizza secondo linee di tensione: squarci, graffi, cagli che emergono sulla tela come ‘intimità viscerali’.   Agli occhi di Pasolini, questo è un corpo a corpo con la materia, prima ancora che restituzione di luce e colore. Infatti, troviamo un lessico della cecità che si accompagna a quello di una sensibilità che è di per sé incarnazione. La passione è “manualità” e “impudico gonfiore dei sensi”. La passione è della carne, nella carne, ma porta con sé un sapere che si fa gesto nell’espressione. Ammesso che quella di espressione sia la categoria centrale del pensiero sull’arte di Pasolini e che egli in tutto il suo lavoro abbia schizzato le linee di un’estetica dell’espressione, allora la SENSIBILITA’ non deve essere vista come una gnoseologia inferior, ma come il cuore pulsante di un sapere vivente, ch ebatte ritmicamente e apre con violenza degli squarci nelle nostre rappresentazioni della realtà. Ecco un paradosso che è tipicamente pasoliniano e che occorre pensare di nuovo: benché abbia teorizzato una nuova mimesis della realtà, Pasolini ci dice contemporaneamente che di questa realtà non può essere fatta alcuna mimesis, essendo essa battito, ferita, lacerazione, passione.

Il paradosso investe lo stile, pertanto, che fa di Pasolini uno dei grandi autori del XX secolo che non si sono limitati a teorizzare un certo pensiero barocco, ma lo hanno praticato. L’espressione nasce qui da una polarizzazione, da DUE TONALITA’ DELL’ESSERE NEL MONDO che sono altrettante aperture al mondo che Pasolini ritrova in PICASSO e che definisce come “pure”. Tuttavia, esse non si danno mai nella loro purezza, ma solo nell’espressione e grazie a essa: gioia da una parte, cioè l’eccesso di vita, un surplus energetico e pulsionale, angoscia dall’altra, cioè l’esperienza più radicale della nostra finitezza di fronte alla morte. Vita-e-morte assieme, tese come una corda sospesa sull’abisso e sulla quale occorre danzare, così come la mano di Picasso danza sulla tela.

L’espressione che sul pelo affiora
del quadro, come da intimità viscerali,
infetta di bruciante disamore,
e ne squassa la squama di tonali,
dolcezze, che, se resiste, e anzi
irrigidisce, è per materiali
inebbrianti cagli. Ma tra i balzi
graffianti del pennello, la zona
di quasi prativa luce, gli sfarzi
dei disaccordi, ecco l’Espressione:
che s’incolla alla cornea e al cuore,
irrichiesta, pura, cieca passione,
cieca manualità, impudico gonfiore
dei sensi, e, dei sensi, tersa noia.
A nient’altro che a questo ateo furore
poteva, nella cadente Francia, Goya
cedere la sua violenza. Qui, a esprimersi,
sono pura angoscia e pura gioia.
Pasolini, Picasso, da Le ceneri di Gramsci

Senza passione non c’è comprensione né intelligenza. L’ESPRESSIONE è la clavicola che permette il movimento tra la chiara intelligenza e l’affetto offuscato. Il movimento stesso è gioia, come Pasolini dice nella settima strofa:
Quanta gioia in questa furia di capire!
In questo esprimersi che rende
alla luce, come materia empirea,
la nostra confusione, che distende
in caste superfici i nostri affetti
offuscati!

Se Picasso ha ben colto, dunque, quella realtà ancora non imprigionata nei codici di un linguaggio che ne fanno cliché, se ha squarciato il velo della rappresentazione dell’ideologia borghese, tuttavia la sua pittura ha un limite che è anche –dice Pasolini- il suo “errore”. Manca infatti ciò per cui c’è realtà caotica e poetica, manca cioè quella figura che dà senso a tutte le altre figure, il popolo:
Assente
è da qui il popolo,
Ed è, l’errore , in questa assenza.

La nona e ultima strofa chiude il poemetto con un montaggio cinematografico serrato, è una sequenza di immagini e al tempo stesso la messa in figura di un anacronismo: sono immagini che provengono dal passato e che, attraversando il presente di Pasolini, giungono fino a noi. I versi di Pasolini restituiscono delle tele di Picasso quasi delle immagini oniriche. Sono immagini livide, cariche di un inquietante pathos che ci richiama a ogni strofa il paradosso della nostra condizione, il nostro tempo scandito da decenni “così vivi da non poter essere vissuti” se non con ansia, dolore, perdita, i nostri anni che sono “doloranti”. Silenzio, fiamme scure, tempesta, paura, sinonimi della nostra modernità che vengono qui cuciti come altrettante cancellature della passione. Così, la passione della chiarezza agli occhi del mondo non può che essere FOLLIA.

Sfortunati decenni… così vivi
da non poter essere vissuti
se non con un’ansia che li privi
di ogni quieta conoscenza, con l’inutile
dolore di assisterne la perdita
nella troppa prossimità… Muti
decenni, di un secolo ancor verde,
e bruciato dalla rabbi adell’azione,
non trascinante ad altro che a disperdere
nel suo fuoco ogni luce di Passione.
Le ultime stanze gremisce la pura
Paura espressa in cristalline zone
d’infantile e senile cinismo: scura
e abbagliata l’Europa vi proietta
i suoi interni paesaggi. E’ matura
qui, se più trasparente vi si specchia,
la luce della tempesta; i carnami
di Buchenwald, la periferia infetta
delle città incendiate, i cupi camions
delle caserme dei fascismi, i bianchi
terrazzi delle coste, nelle mani
di questo zingaro, si fanno infamanti
feste, angelici cori di carogne:
testimonianza che dei doloranti
nostri anni può la vergogna
esprimere il pudore, tramandare
l’angoscia l’allegrezza: che bisogna
essere FOLLI per essere CHIARI.

Nell’eterna metamorfosi dei veggenti, qui non è il clown, il buffone, l’arrabbiato o il funambolo che cammina su una corda tesa a insegnarci il gesto, ma è uno ZINGARO. Uno ZINGARO FOLLE, per giunta, che si colloca pericolosamente a cavalcioni del secolo e, dipingendone le mostruosità, forse promette un altro avvenire.

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