LA CARTELLA ROSSA
romanzo di
IRMA IMMACOLATA PALAZZO
Presentazione
Sala "Pietro da Cortona", Musei Capitolini
P,zza Campidoglio, Roma
martedì 6 ottobre 2015 ore 17
Relatori: ANTONIO MARTURANO
Docente di Antropologia Filosofica (Università di Roma Tor Vergata)
PLINIO PERILLI
Poeta e critico letterario
Con la partecipazione di COSIMO CINIERI
PREFAZIONE
E’ luogo comune che in fondo all’anima di un artista c’è un dolore. Se si legge l’Autobiografia di Charlie Chaplin si arriva a
capire quali profonde lacerazioni turbassero la mente di uno dei più grandi artisti di sempre, e, quindi, si scopre
il lato oscuro di Charlot, la sua profonda melanconia e tristezza che fa da
contrasto ai suoi cortometraggi comici. Non è
da meno il bellissimo racconto di Irma Palazzo, che mi accingo a presentare,
intitolato La cartella rossa, che ha
come fil rouge il dolore profondo
dell'incesto.
In tempi
cinici di 50 sfumature di grigio o di
100 colpi di spazzola prima di andare a
dormire, il racconto di Irma Palazzo, ci apre, in modo intelligente, spesso
ironico, ma, in fin dei conti, amaro, la sua cartella rossa di memorie. Una cartella che ci offre uno spaccato
di una società
particolare, che di questi tempi -
di racconti e film nei quali si esaltano le relazioni transazionali - è poco esplorato: quello del sottoproletariato
del sud Italia, della Puglia. Un ambiente che nella sua rudezza ricorda molto
le borgate romane analizzate da Pasolini, il quale, era affascinato dal
vitalismo dei sottoproletari romani, dalla carica umana che, pur immersi nell’abbrutimento, i suburbi conservavano. Pasolini,
infatti, non mancò di
denunciare lo squallore di quella Roma marginale che aveva scoperto nella lunga
frequentazione del popolo di periferia,
lasciandoci così, in Ragazzi di vita, romanzo del ’55, e in Una
vita violenta, del ’59,
un fedele ritratto dell’epoca.
Analogamente, non ci sono, nel racconto di Irma Palazzo, patinate storie di
sesso estremo tra manager e giovincelle rampanti pronte a cedere il proprio
corpo per una vita facile; ma delle vite, come nei racconti Pasoliniani,
semplici e sofferte, ma, contemporaneamente, dignitose nei sentimenti e,
paradossalmente, nella propria integrità
morale; vite, cioè – se vogliamo usare il lessico filosofico di
Heidegger –
genuine, il cui metro non è
il successo sociale o il danaro. E’,
almeno in parte, un ritorno al racconto sociale, a quel racconto che si
sviluppa in gran parte dell’Europa
nella prima metà
dell'Ottocento che tratteggia la vita dei ceti sociali economicamente
svantaggiati e denuncia situazioni di sopruso e pregiudizio. E’ pure un racconto “sentimentale”
– alla
Laurence Sterne, ove la commozione dell’autore
si atteggia subito a sorriso, di un ridere quasi disperato e, come abbiamo già detto, sovente malinconico che è spesso strappato al lettore mediante lo
stratagemma della parlata dialettale, il giargianese[1] o giaggianese, la lingua degli “stranieri dal linguaggio incomprensibile” ovvero, nelle intenzioni dell'autrice, di
tutti coloro i quali sono stati strappati dall'ambiente a loro familiare: Barivecchia, e quindi privi di radici.
Il
racconto, che si svolge negli anni ’60
a Bari, e in particolare tra il quartiere oggi chiamato “San Paolo”
(u CEP)e un collegio di Bitonto. Il quartiere San Paolo è uno dei quartieri di più recente costruzione nella città di Bari. Esso, infatti costituisce una grande
zona residenziale la cui espansione è
da ricondurre all'edilizia popolare degli anni '50 - '70; non a caso il San
Paolo è sovente
menzionato con l'acronimo "CEP" che sta per "Centro Edilizia
Popolare" (anche se alla fine del racconto Irma Palazzo lo ribattezza “centroelementipericolosi”). La fondazione del quartiere fu decisa il 14
febbraio 1956 a causa della mancanza d'alloggi che potessero far fronte
all'elevata crescita demografica; questa esplosione della popolazione rese,
quindi, necessaria l'edificazione d'una grossa area destinata all'espansione
territoriale della città
capoluogo, Bari, come per altre città
italiane (come per esempio, più
tardi, il quartiere Paolo VI della vicina Taranto). Il quartiere diviene quindi
– come
testimoniato dal racconto - un crogiuolo di etnie, razze e popoli provenienti
da gran parte del bacino del Mediterraneo, diventando così un esperimento non inteso, di quello che
diventerà l’Italia negli anni odierni. Un luogo non-luogo
nel quale si è
manifestata prima che in altri luoghi l’esperienza
della liquidità dei
legami sociali – per
usare un termine in voga oggi e coniato da Zygmunt Bauman –, ovvero, l’esperienza
delle relazioni sociali come segnate da caratteristiche e strutture che si
vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto,
fluido e volatile. Infatti, questa liquidità
è ciò che la piccola Immacolata, voce narrante del
racconto, subisce sulla propria pelle, come anche alcuni degli altri interpreti
del racconto: un padre presente solo in modo sporadico in quanto emigrante, con
il quale Immacolata è costretta,
come abbiamo detto, all'incesto; i rapporti che la bambina intraprende con le
sue amiche di collegio; i rapporti con e tra “i
grandi” con la
lacerazione della quale si è
intrappolati tra la voglia o la necessità
di trovare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico. In questo senso
il racconto è una
iniziazione alla educazione sessuale e sentimentale, che però non mette mai in gioco l'”innocenza”,
o meglio, la integrità della
protagonista, al contrario del cinismo e dell'arrivismo sociale che si può leggere in romanzi come 50 sfumature di grigio.
L’incesto è
un tema ricorrente nella letteratura di tutti i tempi, basti ricordare nella
mitologia l’Edipo Re di Sofocle ed Elettra – nell’Orestea di
Eschilo -; nella letteratura più
recente il Diario di Anais Nin, Elias Portolu di Grazia Deledda, o Cent’anni di
Solitudine di Gabriel Garcia Marquez, giusto per nominare alcuni tra gli
esempi più famosi, e la
pletora di analisi psicoanalitiche che hanno alimentato il fascino di questo
tabù sin dai
primi studi di Freud. Anche il tema dell’incesto
si inquadra, nel lavoro della Palazzo, in quella dinamica di liquidità sociale, in particolare della liquidità familiare, che fa da sfondo, per esempio, all’Agostino di
Moravia. Come nel romanzo di Moravia - anche esso storia di una dolorosa iniziazione al
sesso da parte di un adolescente -, ciò
che rende interessante l’incesto
ne La Cartella Rossa è il suo inserimento all’interno di un quadro sociale disagiato, quello
del CEP: se l' amore proibito, infatti,
fosse raccontato soltanto sulla base di un chiuso rapporto di coppia, l'incesto
rimarrebbe una questione isolata dal quadro circostante, facendo prevalere
magari i suoi connotati esclusivamente psicologici. Ma laddove nell’Agostino moraviano, le regole che assicurano la
durata dell'istituzione familiare, sia pure degradate, continuano a mantenere
una loro funzionale solidità, nel racconto di Irma Palazzo la
liquidità, come mi
son permesso di suggerire, prende il sopravvento.
E’, quello della Palazzo, un racconto che si può leggere su diversi livelli; il racconto di un
esperimento multietnico: Filomena, la bambina “colpa
della guerra”,
mulatta, Carolina, la zingara mussulmana, che al contrario di Immacolata (che
infatti, afferma: “siamo
tipi liberi, noi” – esempio palpabile della liquidità e dello sradicamento sociale), vive in modo
tradizionale (ribatte, infatti, Carolina a Immacolata: “Mm. Beata. Noi siamo una tribù.”).
E’ in
questo esempio che si può
apprezzare quella cesura tra le culture del sud del Mediterraneo e le culture
postindustriali europee, entrambe condannate ad una diversa “prigione”:
una, invisibile, dominata dalla liquidità
e da quella perdita tradizionale di senso che crea negli individui quel
sentimento di estraneamento; l’altra,
caratterizzata ancora pesantemente da una figura di controllo dominante (il
maschio più adulto – Colino o Niksa) che ha il compito di
provvedere sicurezza alla “tribù”. Questo dualismo meglio rappresenta il dilemma
epocale tra libertà e
sicurezza. Dice Bauman: "Libertà
e sicurezza sono valori entrambi necessari, ma sono in conflitto tra loro. Il
prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è
una minore libertà e il
prezzo di una maggiore libertà
è una
minore sicurezza. La maggior parte delle persone cerca di trovare un
equilibrio, quasi sempre invano". Il racconto della Palazzo è come se ci invitasse a riflettere su questo
dualismo e questo conflitto tra due weltanschauung che si propone in modo
pionieristico a “u CEP” negli anni ’60
e che preconizza i grandi conflitti ideologici di oggi e i piccoli conflitti
interculturali quotidiani che viviamo nelle nostre periferie.
Irma
Palazzo, quindi, si muove magistralmente a cavallo di due filoni: quello del
racconto sociale e quello della educazione sentimentale. Un racconto, però, la cui lettura non si deve limitare alle
pruderie sessuali, o alle emozioni - tante e contrastanti – che esso ci può
dare; La cartella rossa, al
contrario, come mi sono sforzato di mostrare, ci invita a riflettere sulle
scelte politiche passate che hanno informato la società italiana così
come è oggi. Un
mondo, quello de “u CEP” nel quale i legami incominciano a sfilacciarsi
anche se non sono ancora “usa-e-getta” come quelli delle connessioni online sfruttate
dal capitalismo che ha capito le potenzialità
di Internet come veicolo di socialità.
Invero, i legami sociali richiedono impegno; afferma Bauman,
"connettere" e "disconnettere" è un gioco da bambini. Farsi degli amici offline
è più complicato: l’amicizia,
come anche l’amore,
richiede impegno e ascolto; è
questa l’interpretazione
che io propongo della metafora finale della cartella rossa, scarabocchiata,
rovinata e infine vuotata ma segnata da solchi profondi; ogni segno, infatti,
parla non solo di una singola compagna di collegio: Eva, Assunta, Sabella, ma
anche della ferità dell’incesto con quel padre che, tradendo una
promessa, non ritornerà più. Solchi dell’anima
e nell’anima,
quei dolori – motori
dell’animo
dell’artista – ai quali abbiamo accennato all’inizio; gli stessi che infine però fanno dire alla piccola Immacolata, ”Non fasce nudde. E' bella lo stesso. Proprio
cornuta, con le sue cicatrici nere d'inchiostro”,
un “Non fa
niente, non importa” pieno
di ottimismo che riecheggia, e, contemporaneamente ribalta, il pessimismo
dell'ormai maturo Eduardo De Filippo in Peppino
Girella: “Che vuoi
fare: è cos’e nient”,
dice la moglie. E Peppino Girella risponde in modo amaro: “Pure questa è
cos’e nient.
È sempre
cos’e nient”.
Antonio Marturano
Docente di Antropologia
Filosofica
(Università di Roma Tor
Vergata)
[1] Il termine nato sul finire del XIX secolo
nel Sud Italia, andò a sparire nel corso del tempo, per poi ricomparire d’improvviso,
in forma leggermente modificata, negli anni ’40 del 1900. L’originaria voce ggiaggianése, modellata per corruzione sul termine
viggianese (Viggiano, piccolo paesino montano della Lucania in provincia di
Potenza), fu usata per indicare variamente taluni caratteristici suonatori
ambulanti, oppure dei piccoli commercianti lucani che arrivavano alle
latitudini centro-meridionali per acquistare uve o mosto semilavorato; solo una
piccola parte di questi piccoli commercianti o suonatori provenivano effettivamente
da Viggiano; ma poiché tutti i commercianti che non fossero campani, e
soprattutto quelli provenienti dal nord, parlavano un idioma non molto
comprensibile (ovvero allo scopo di imbrogliare), si finí per considerarli
tutti “viggianesi” e, dunque, giaggianise.
La voce, come abbiamo accennato prima, riapparve nell’uso del parlato comune subito dopo la
guerra, quando in Campania, Puglia, Abruzzo etc. arrivarono le truppe alleate
che parlavano un linguaggio altrettanto incomprensibile di quello tipico dei
ggiaggianesi; fu in questo periodo che la voce ggiaggianese subí una sorta di
ammodernamento, allorché accostando a ggiaggianese
il nome proprio George, comune tra gli alleati, si ottenne giargianese, nelle medesime accezioni della vecchia parola.
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